Il Venezuela, patria della più grande riserva di petrolio al mondo, rappresenta un paradigma della contraddizione tra ricchezza naturale e crisi economica. Nel cuore dell’America Latina, questo paese è un chiaro esempio di come le immense risorse naturali possano non solo costruire una nazione, ma anche precipitarla in profonde difficoltà. 

Qui, il costo del petrolio è il più basso a livello globale: un litro è venduto a circa 0,017 centesimi di euro, così poco da far sembrare quasi che il governo paghi i cittadini per guidare. 

Unica nazione al mondo con due presidenti, uno eletto, Nicolás Maduro, e l’altro, Juan Guaidó, che si è auto-proclamato presidente ad interim, il Venezuela è anche l’unico paese dove il dollaro assume due valori diversi. Da anni, il governo venezuelano distribuisce dollari a un tasso preferenziale di 6,3 bolívar per dollaro a una ristretta élite composta da imprenditori, militari e grandi gruppi industriali. Per il resto della popolazione, rimane solo il mercato nero, dove nel 2016 un dollaro veniva scambiato a 1.200 bolívar, con un incremento annuale del 5.600%. Il declino del Venezuela può essere attribuito a un insieme di fattori: la corruzione endemica dei governi, la cattiva gestione delle risorse petrolifere e le interferenze esterne, come le sanzioni americane imposte per motivi politici e strategici, che hanno aggravato la crisi umanitaria. Inoltre, il petrolio, nonostante sia stato una benedizione, si è rivelato anche una maledizione per il paese. Da quando Hugo Chávez assunse il potere, la compagnia petrolifera statale ha guadagnato oltre mille miliardi di dollari dalle vendite di petrolio, una somma superiore di tredici volte alle spese del Piano Marshall. Nonostante queste immense entrate, la nazione è precipitata nel degrado. Paradossalmente, si stima che anche tra tre secoli, quando le riserve petrolifere globali saranno largamente esaurite, il Venezuela potrebbe ancora essere in grado di produrre petrolio. La situazione del Venezuela ci offre un insegnamento cruciale: un’eccessiva ricchezza, se mal gestita, può risultare persino più dannosa dell’indigenza. 

La situazione del Venezuela ci offre un insegnamento cruciale: un’eccessiva ricchezza, se mal gestita, può risultare persino più dannosa dell’indigenza. Durante gli anni ’50 e ’60, grazie ai proventi del petrolio, il Venezuela si classificava tra i venti paesi più ricchi del mondo per reddito pro capite. Lo stato garantiva prestiti a basso costo, sussidi generosi, molteplici opportunità di impiego e servizi pubblici gratuiti, mentre una moneta intenzionalmente sopravvalutata, il Bolívar, facilitava l’accesso ai beni importati. In quel periodo, il popolo venezuelano godeva di un elevato standard di vita senza particolari difficoltà. Il paese incarnava il prototipo dello stato rentier, caratterizzato da entrate petrolifere abbondanti che scoraggiavano qualsiasi stimolo a diversificare e migliorare l’industria nazionale, configurando una situazione ideale per un disastro imminente. Per comprendere il Venezuela contemporaneo, è essenziale ritornare agli albori del XX secolo. Precisamente il 31 luglio 1914 segnò una svolta, quando un flusso oscuro e viscoso di petrolio iniziò a sgorgare dalla terra a Maracaibo, estratto dalla Caribbean Oil Company, una sussidiaria della Shell, con un ritmo di oltre 250 barili al giorno. All’epoca, il Venezuela era un paese scarsamente sviluppato con una popolazione di 2 milioni di persone, principalmente dedita all’agricoltura. L’autorità suprema era rappresentata dal presidente Juan Vincente Gòmez. Per Gòmez, il petrolio rappresentò una benedizione divina. La produzione annuale balzò da poco più di un milione di barili nei primi anni 1920 a 137 milioni, posizionando il Venezuela al secondo posto dopo gli Stati Uniti. Gòmez, grazie alle concessioni petrolifere concesse alle compagnie occidentali, divenne uno degli uomini più ricchi dell’America Latina. La sua gestione contribuì all’ascesa graduale ma costante dell’esercito, sostenuto dai ricavi del petrolio. Attualmente, l’influenza dell’esercito venezuelano è una garanzia per la sicurezza del potere di Maduro. Alla morte di Gòmez, i proventi del petrolio costituivano due terzi del reddito nazionale e oltre il 90% delle esportazioni del paese, predisponendo il Venezuela ad essere vittima del cosiddetto “male olandese” o “Dutch Disease”. L’impatto del petrolio trasformò profondamente la società venezuelana in soli vent’anni. Nel 1952, quando il generale Marcos Pérez Jimenez assunse il potere attraverso un colpo di stato, interrompendo l’esperimento democratico del Trienio Adeco, il Venezuela era già profondamente cambiato: l’era di nuovo splendore fu simboleggiata dalla costruzione della prima autostrada nazionale, voluta da Jimenez per collegare la capitale Caracas alla città costiera di La Guaira. Il Venezuela ebbe la fortuna di scoprire l’idrocarburo perfetto al momento giusto: durante il boom economico del dopoguerra, quando la domanda mondiale di petrolio raggiunse picchi senza precedenti. Il Medio Oriente, nel frattempo, contribuì a far salire i prezzi del petrolio a livelli record. La decisione dell’Iran di nazionalizzare l’industria petrolifera nel 1951 e il successivo rovesciamento di Mohammad Mossaddegh due anni dopo, insieme alla chiusura del canale di Suez ad opera del presidente egiziano Nasser, catalizzarono il flusso dei petrodollari verso il Venezuela. Durante gli anni in cui Jimenez fu al potere, fino al 1957, il Venezuela superò tutti gli altri paesi nell’attrarre capitali stranieri, superando persino la Germania Ovest che in quel periodo beneficiava dei fondi del Piano Marshall. Sotto il regime di Jimenez, gli investimenti stranieri in Venezuela triplicarono. Le aziende potevano investire, realizzare profitti e rimpatriare il capitale senza restrizioni. La politica era chiara: fare affari era consentito, ma senza interferire con le operazioni di un governo oppressivo come quello di Jimenez. Grazie ai petrodollari, il costo della vita in Venezuela raggiunse livelli stratosferici. Negli anni ’50, un americano con uno stipendio mensile di 1.000 dollari (equivalenti a circa 9.000 dollari odierni) faticava a coprire le spese mensili. Le ambizioni di Jimenez non si limitarono a un semplice cambio di nome del paese, da Stati Uniti del Venezuela a Repubblica del Venezuela, ma promossero anche la creazione di imprese statali nei settori minerario, siderurgico e petrolchimico, nonché la costruzione di scuole, ospedali e alloggi per le classi più disagiate. Tutto doveva apparire moderno, grandioso ed elegante per impressionare i visitatori internazionali. A Caracas, grattacieli, hotel di lusso e ville sorsero rapidamente, e il tasso di crescita annuale del PIL raggiunse in media il 5%. Di conseguenza, per molti anni, il PIL pro capite del Venezuela fu tra i più alti del Sud America e il Bolívar rimase la valuta più forte e stabile della regione. Inoltre, molti rifugiati europei che si trasferirono in Venezuela nel dopoguerra trovarono un paese con un mercato interno in crescita e un’agricoltura in via di modernizzazione. L’afflusso di immigrati dall’Europa, in particolare dalla penisola Iberica durante gli anni del franchismo e dall’Italia, colmò il vuoto demografico creatosi nelle aree rurali, abbandonate dai venezuelani che preferirono dedicarsi all’industria petrolifera. Paradossalmente, nelle stesse baraccopoli, sia i poveri che i ricchi evitavano di risparmiare, preferendo indebitarsi pur di acquistare beni di largo consumo come condizionatori, abiti di marca e televisioni via cavo. Marcos Pérez Jiménez, ex leader del Venezuela, fu deposto a causa della sua politica repressiva che alienò molti, inclusi i militari che alla fine lo costrinsero all’esilio nel 1958. Dopo di lui, il Venezuela cercò stabilità politica attraverso il Pacto de Punto Fijo, che condusse all’elezione di Rómulo Betancourt. Sotto la sua guida, Juan Pablo Pérez Alfonso gestì le risorse petrolifere, criticando duramente la loro cattiva gestione e promuovendo la sovranità venezuelana sul petrolio contro le influenze straniere. In risposta alle restrizioni commerciali imposte dagli Stati Uniti, che favorivano il petrolio canadese e messicano a discapito di quello venezuelano, Alfonso avviò trattative con l’Arabia Saudita, il Kuwait, l’Iran e l’Iraq. Questi dialoghi portarono alla fondazione dell’OPEC nel 1960, un cartello volto a stabilizzare i prezzi del petrolio e a ridurre le interferenze occidentali nel mercato. Grazie a questa iniziativa, durante gli anni ’60 e ’70, il Venezuela ottenne il soprannome di “Venezuela Saudita”, riconoscendo il suo ruolo preminente nel mercato petrolifero mondiale. In passato, il Venezuela ha attratto numerosi migranti colombiani in cerca di migliori opportunità, ma la situazione si è invertita recentemente, con migliaia di venezuelani che fuggono quotidianamente verso Colombia ed Ecuador a causa della profonda crisi economica. Durante gli anni ’70, Caracas era così prospera che Air France inaugurò un volo Concorde diretto per Parigi, ma contemporaneamente l’abbandono dell’agricoltura da parte della popolazione spostatasi verso le città obbligò il governo a importare beni di prima necessità. I governi socialdemocratici dal periodo di Betancourt fino a Chávez adottarono politiche di bassa tassazione e sovvenzioni generose, appoggiandosi ai proventi del petrolio per finanziare servizi e impieghi statali. Questa dipendenza dai ricavi petroliferi portò a un’economia poco diversificata e vulnerabile. Con la fondazione della Petróleos de Venezuela, S.A. (PDVSA) nel 1976, il governo venezuelano procedette alla nazionalizzazione dell’industria petrolifera, revocando nel 1983 la maggior parte delle concessioni precedentemente accordate alle compagnie estere. In quello stesso anno, il Venezuela assunse il controllo completo delle sue risorse petrolifere, spesso descritte come la sua “gallina dalle uova d’oro”. Tuttavia, ironicamente, proprio mentre il paese celebrava questo traguardo significativo, si manifestarono nuove sfide economiche: un sovrabbondante approvvigionamento di petrolio a livello globale ridusse la domanda di greggio, causando un crollo del prezzo del petrolio venezuelano da 35 a 14 dollari al barile entro il 1988. CITGO Petroleum Corporation, fondata nel 1910 originariamente come Cities Service Company e rinominata CITGO nel 1965, è strettamente legata a questi eventi. Nel 1986, PDVSA ha acquisito CITGO, trasformandola in una filiale chiave per la distribuzione del petrolio venezuelano negli Stati Uniti. Questa acquisizione è stata parte della strategia del Venezuela di massimizzare i benefici derivanti dalle sue risorse petrolifere nazionalizzate, permettendo al paese di accedere direttamente al lucrativo mercato energetico statunitense, ma di CITGO ne parleremo in un prossimo articolo. Abituati a governi generosi, i venezuelani continuarono a spendere nonostante la riduzione degli stipendi. La crisi colpì duramente durante il mandato del presidente Luis Herrera Campins, ex giornalista, che drenò quasi 6 miliardi di dollari dalle casse di Petróleos de Venezuela, la compagnia petrolifera statale. Di fronte al calo dei capitali stranieri e alla fuga di denaro, Campins reagì maldestramente il “venerdì nero” del 1983, decretando una svalutazione del 75% del Bolivar, scatenando una corsa al cambio in valute più forti. La mossa aumentò l’insicurezza e la violenza, segnando un netto distacco dal benessere degli anni precedenti. Il Venezuela, che aveva basato la sua economia sull’importazione piuttosto che sulla produzione locale, si trovò senza risorse per acquistare cibo dall’estero, aggravando la situazione. La crisi culminò nel 1989 quando il presidente Perez annunciò un aumento del prezzo della benzina, scatenando rivolte note come Caracazo, un punto di svolta che segnò l’inizio di un declino economico e sociale. La corruzione del governo, evidenziata dall’accusa a Perez di aver sottratto 17 milioni di dollari dai fondi statali nel 1993, preparò il terreno per l’ascesa di Hugo Chávez. Chávez, all’epoca un paracadutista dell’esercito poco conosciuto, emerse come una figura di opposizione contro il governo corrotto, guadagnandosi il supporto popolare e pavimentando la sua strada al potere, sfruttando la disillusione della popolazione verso i governi tradizionali e promettendo di porre fine alla corruzione e di ridistribuire la ricchezza petrolifera. La storia del Venezuela è un monito potente su quanto delicato sia l’equilibrio tra la gestione delle risorse naturali e la stabilità politico-economica di una nazione. Nonostante l’abbondanza di petrolio, la nazione è stata incapace di sfruttare questa ricchezza per garantire un benessere duraturo ai suoi cittadini. Invece, la cattiva gestione e la corruzione hanno eroso le fondamenta stesse dello sviluppo venezuelano, lasciando una popolazione in balia di una crisi senza precedenti. Guardando al futuro, il Venezuela ci offre una lezione critica sull’importanza della trasparenza, della responsabilità e di una governance efficace per qualsiasi paese che si trovi in una posizione simile. Sarà possibile per il Venezuela riscrivere il suo destino e trovare una strada per la riscossa socioeconomica? Solo il tempo potrà dircelo, ma la storia ci insegna che le risorse, per quanto abbondanti, non sono una garanzia di prosperità senza una guida saggia e giusta. E tu cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti!