Quando si parla di debito pubblico, spesso la discussione si sposta oltre i confini Europei ed Occidentali. Da questo punto di vista, il Giappone, anch’esso paese membro del G7 come l’Italia, salta subito all’occhio con il suo rapporto Debito/PIL che supera il 250%. Un numero così alto che Il 143% circa di rapporto Debito/PIL Italiano, sembra farsi piccolo se messo a confronto. Il debito pubblico italiano, nel corso della sua storia, ha subito notevoli variazioni in termini di rapporto con il PIL. Dopo aver raggiunto un minimo nel 1963 al 32,6% del PIL, il debito pubblico italiano è aumentato ininterrottamente fino ai primi anni ’90, toccando il picco nel 1994. Questo incremento è avvenuto in un contesto di rallentamento della crescita economica, particolarmente evidente tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, e di crescenti spese pubbliche, che passarono dal 29% del PIL nel 1960 al 53,5% nel 1990. Questo aumento della spesa pubblica è stato in parte dovuto all’istituzione di un esteso sistema di welfare state a partire dagli anni ’60 e all’applicazione di politiche keynesiane di espansione della spesa pubblica per sostenere la crescita economica. Gli anni ’70 furono particolarmente critici, caratterizzati da periodi di recessione legati alle crisi petrolifere e da un aumento sostanziale della spesa pubblica. Durante questo periodo, si verificò un fenomeno di stagflazione, con alta inflazione e bassa crescita economica, che spinse lo Stato ad aumentare il debito per finanziare la spesa pubblica. Tra il 1970 e il 1980, il rapporto debito/PIL è cresciuto dal 38% al 55%. Negli anni ’80 si assistette a un’ulteriore esplosione del debito pubblico, arrivando quasi al 100% del PIL. Nei primi anni ’90, in seguito all’aumento del debito pubblico negli anni ’80, l’Italia ha dovuto adottare politiche economiche volte a ridurre il suo debito pubblico per rispettare i parametri europei. Questo processo ha incluso la dismissione di imprese pubbliche e un cambio nella politica economica con una riduzione della spesa pubblica. L’entrata nell’euro ha contribuito a ridurre il rendimento dei titoli di Stato italiani, riducendo gli interessi che lo Stato doveva pagare ai creditori. La riduzione della spesa e del debito è proseguita nei primi anni 2000, portando a una diminuzione del rapporto debito/PIL di 17 punti percentuali. Tuttavia, questa fase di decrescita del debito si è interrotta nel 2008, a causa della crisi economica globale che ha richiesto un massiccio intervento pubblico e ha portato a un ulteriore aumento del debito pubblico in Italia. Di seguito l’evoluzione del rapporto Debito/PIL italiano dal 1988 ad oggi. 

D’altro canto, l’evoluzione del rapporto debito/PIL in Giappone è stata caratterizzata da un aumento significativo nel corso degli anni. A partire dagli anni ’90, il debito pubblico giapponese ha iniziato a crescere costantemente, arrivando a livelli molto elevati. Questo incremento del debito è stato in parte dovuto a politiche di spesa espansiva del governo e alla necessità di fronteggiare sfide economiche interne, come la debole crescita e l’evoluzione demografica sfavorevole. Di seguito un grafico sull’andamento del rapporto Debito/PIL in Giappone dagli anni ’80 ad oggi. 

Ma allora perché economisti da tutto il mondo, etichettano il Debito del nostro Paese come “non sostenibile”, e non si sente mai parlare di quello Giapponese? Qual è la differenza tra questi due Debiti Sovrani? Nell’esplorare le differenze tra il debito pubblico italiano e quello giapponese, emergono alcuni aspetti cruciali che li distinguono.

Il debito pubblico italiano si caratterizza per una quota significativa, circa il 30%, detenuta da investitori esteri, aumentando il rischio speculativo. In contrasto, il Giappone mantiene la maggior parte del suo debito internamente, con circa il 90-95% nelle mani dei cittadini giapponesi, di cui la Banca del Giappone (BoJ) detiene circa il 40%. Questo controllo interno del debito da parte del Giappone, unito alla politica monetaria aggressiva della BoJ, ha contribuito alla stabilità del debito giapponese, nonostante sia tecnicamente più elevato rispetto a quello italiano. Inoltre, le riforme giapponesi nel settore pensionistico e investimenti strategici in infrastrutture e istruzione hanno rafforzato l’economia del paese. In Italia, invece, sfide come un aumento previsto del 47% nel debito pensionistico e la dipendenza da investitori esteri rendono il contesto del debito pubblico più precario. L’ex governatore della BCE Mario Draghi ha sottolineato l’importanza di un utilizzo prudente del debito, differenziando tra investimenti produttivi e spese correnti senza impatto economico significativo. Questi fattori evidenziano le differenze strutturali e di gestione tra i due paesi nel trattare il debito pubblico, con il Giappone che appare in una posizione più stabile e autonoma rispetto all’Italia. In Giappone, la maggior parte del debito pubblico è detenuta da istituzioni pubbliche o semi-pubbliche, come banche, fondi pensione e assicurazioni. Queste istituzioni acquistano titoli di stato a tasso zero o negativo, indipendentemente dal rendimento offerto. Ciò è in parte dovuto alla politica della Bank of Japan che controlla i tassi di interesse a lungo termine. Questa strategia ha contribuito a mantenere bassi i costi del servizio del debito per il governo. Inoltre, in Giappone c’è una scarsa propensione al consumo e agli investimenti da parte del settore privato, riducendo l’efficacia dello stimolo monetario e aumentando la capacità della Banca del Giappone di detenere debito pubblico per lunghi periodi senza grossi impatti sull’economia reale. A questo proposito, c’è una certa somiglianza nel ruolo svolto dalla Banca del Giappone (BoJ) oggi e quello della Banca d’Italia prima del cosiddetto “divorzio” dal Tesoro nel 1992. Prima di questo “divorzio”, la Banca d’Italia fungeva da compratore di ultima istanza per i titoli di stato italiani, un ruolo simile a quello attualmente svolto dalla BoJ nel mercato dei titoli di stato giapponesi. Il “divorzio” del 1981 tra la Banca d’Italia e il Tesoro è stato un’arma a doppio taglio. Da un lato, questa manovra aveva l’obiettivo di ridurre l’inflazione, che era diventata un problema significativo per l’economia italiana, contribuendo a un ambiente economico più stabile e prevedibile. D’altro canto, ha portato a un aumento del costo del finanziamento del debito pubblico. Senza la Banca d’Italia come compratore di ultima istanza, il Tesoro ha dovuto rivolgersi ai mercati finanziari, dove i tassi di interesse più elevati hanno portato a un aumento del costo del servizio del debito, contribuendo così all’aumento dei livelli di indebitamento dell’Italia. La storia e la gestione del debito pubblico italiano non è sempre stata uguale nel tempo, infatti, prima dell’introduzione dell’euro e della partecipazione dell’Italia all’Unione Europea, il debito pubblico italiano era gestito in modo diverso rispetto ad oggi. Durante quel periodo, una porzione significativa del debito pubblico italiano era detenuta internamente. Le banche italiane, le assicurazioni e altri investitori nazionali avevano una partecipazione maggiore nella partecipazione al debito del paese. Ciò era in parte dovuto alla minore integrazione dei mercati finanziari globali e alla maggiore autonomia monetaria nazionale. Dopo l’adozione dell’euro, c’è stato un cambiamento significativo nella composizione dei detentori del debito pubblico italiano. L’apertura dei mercati e l’integrazione nell’area dell’euro hanno facilitato l’ingresso di investitori internazionali. Di conseguenza, la percentuale del debito detenuta da investitori esteri è aumentata. Nonostante l’Italia abbia registrato un avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite dello Stato, esclusi i costi degli interessi sul debito pubblico) quasi sempre positivo negli ultimi trent’anni, il rapporto debito/PIL del paese è rimasto elevato. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale (FMI), tra il 1990 e il 2019, l’Italia ha registrato un avanzo primario medio dell’1,75% rispetto al PIL, posizionandosi all’undicesimo posto tra 115 paesi del mondo. Quando si considerano gli aggiustamenti per il ciclo economico, l’Italia sale al quinto posto, con un avanzo primario medio corretto del 2,25% rispetto al PIL potenziale. Questi dati pongono l’Italia davanti ad altri grandi Paesi europei e membri del G7 in termini di avanzo primario. Tuttavia, il debito pubblico italiano è rimasto elevato, essendo il più alto in Europa dopo la Grecia e tra i membri dell’OCSE dopo il Giappone. Nel 2018, l’Italia ha speso quasi 65 miliardi di euro, circa il 3,6% del PIL, per pagare gli interessi sul debito pubblico, una cifra equivalente a quella spesa per finanziare il bilancio del Ministero dell’Istruzione. Per concludere ci siamo chiesti: “Ha davvero senso paragonare il Debito Sovrano di Italia e Giappone?” La risposta è… Si! …. Ma fino a un certo punto. Mi spiego meglio… Confrontare i debiti sovrani italiano e giapponese può sembrare naturale dato che entrambi i paesi sono importanti economie globali e membri del G7. Tuttavia, una tale comparazione deve tenere conto delle differenze significative nella struttura economica, nella politica monetaria e fiscale e nei contesti di mercato di ciascun paese. L’Italia non ha una banca centrale interna pronta ad assorbire la domanda derivante dall’emissione di nuovi Titoli di Stato. Queste differenze sottolineano l’importanza di considerare il contesto specifico di ciascun paese quando si valuta la sostenibilità e le implicazioni del debito pubblico. Pertanto, benché utile per una prospettiva comparativa, il paragone tra i due debiti sovrani deve essere fatto con cautela e considerando i contesti unici di ciascun paese. E tu cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti!